RAI, dall’inchiesta al populismo.
Montali Leonardo
La periferia urbana, quella moderna, sembra esser nata con la vocazione a farsi capro espiatorio dei mali urbani e dei vizi che l’urbanizzazione frenetica ha disseminato nelle città italiane. In particolare, Torino e i quartieri di Madonna di Campagna e Borgo Vittoria non fanno eccezione. Queste zone godono oggi di una reputazione tutt’altro che rosea, simile a quella che grava su molte periferie industriali del nostro paese. Una nomea, questa, alimentata in larga parte da una narrazione che trova nella televisione pubblica, la RAI, un alleato prezioso, capace di amplificare percezioni e stereotipi.
Per comprendere l’origine di questo fenomeno bisogna tornare agli albori delle trasmissioni televisive in Italia. Nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, l’Italia era un paese ferito, ma animato da un ottimismo contagioso. Si cavalcava un’onda di fiducia nei piani nazionali di ricostruzione, come quelli legati all’edilizia popolare, ritenuta una delle chiavi per sollevare il paese dalle macerie del conflitto. Fu proprio in questo clima che la RAI, impegnata nel suo ruolo di servizio pubblico, iniziò a trasmettere documentari e inchieste dedicate al problema dell’abitare (fig. 2).
Questi programmi, che compaiono già nei primi anni ’50, documentavano l’impegno dello Stato per risolvere la questione abitativa nelle grandi città industriali, come Torino e Milano. I piani di edilizia popolare, sostenuti da figure come Amintore Fanfani, erano presentati come una risposta moderna e definitiva alla necessità di alloggi dignitosi per le masse operaie. Nei documentari della giovane Liliana Cavani, ad esempio, si poteva cogliere l’enorme sforzo compiuto per edificare rapidamente nuovi quartieri a fronte di una crisi abitativa ingente (fig. 1). Ma già allora emergeva una consapevolezza critica: per trasformare quegli insediamenti in quartieri integrati al tessuto urbano, sarebbe stato necessario fornire non solo case, ma anche servizi, spazi pubblici, infrastrutture. Una sfida che le istituzioni avrebbero sistematicamente rimandato. Negli anni successivi, l’attenzione si spostò dagli edifici ai loro abitanti. I quartieri popolari, inizialmente simbolo di rinascita, divennero soggetto di indagini che sottolineavano le differenze tra lo stile di vita operaio e quello borghese. La televisione iniziò a registrare e amplificare queste disparità, contribuendo, forse involontariamente, a creare una separazione non solo fisica, ma anche ideologica tra il centro cittadino e la periferia. Inchieste e reportage, pur animati da un intento documentaristico, tendevano spesso ad accentuare peculiarità e criticità, fissando nell’immaginario collettivo un quadro di marginalità e precarietà sociale.


Negli anni ’80 si assiste a un decennio cruciale in cui la percezione delle periferie si consolida come quella di luoghi associati al degrado sociale e alla criminalità. Questo cambiamento si inserisce in un quadro più ampio: in quel periodo, l’opinione pubblica modificò radicalmente il proprio atteggiamento verso i giovani. Se nei decenni precedenti erano stati protagonisti di lotte politiche e movimenti di cambiamento, negli anni ’80 i giovani vennero sempre più spesso rappresentati come una generazione disimpegnata, attratta dal consumismo, dalle droghe e dalla malavita. In questo contesto, le periferie, già segnate da profondi problemi strutturali, diventarono il palcoscenico ideale per rappresentare tali dinamiche, alimentando un immaginario negativo. Sebbene queste tematiche fossero inizialmente affrontate da opere a carattere documentaristico, a partire dagli anni 2000 la percezione dei quartieri periferici venne plasmata soprattutto dai programmi giornalistici e dalla cronaca, quest’ultima onnipresente nei telegiornali e nelle trasmissioni di approfondimento, contribuì a rafforzare l’immagine di queste aree come spazi invivibili, segnati dall’abbandono edilizio, dallo spaccio di droga e dalla prostituzione. Tale narrazione finì per cristallizzare un’immagine stereotipata, difficilmente superabile, che ancora oggi influisce sul modo in cui le periferie vengono percepite dall’opinione pubblica.
È importante notare come la RAI, che nei suoi primi anni aveva promosso i quartieri popolari come simbolo di progresso, non abbia saputo o voluto ribaltare questa narrativa. La televisione pubblica, pur continuando a occuparsi delle periferie, si è spesso limitata a raccontarne gli aspetti più problematici, trascurando di dare spazio alle realtà positive che pure esistono e resistono in questi contesti. Le inchieste sociali, un tempo strumenti di denuncia costruttiva, si sono trasformate in un’eco amplificata delle difficoltà, alimentando una visione unilaterale e penalizzante.
Eppure, le periferie non sono soltanto questo. Sono luoghi in cui convivono difficoltà e risorse, problemi e potenzialità. Non mancano iniziative sociali, culturali, artistiche che mirano a migliorare la qualità della vita e a costruire un senso di comunità. Sono proprio queste esperienze, spesso ignorate dai media tradizionali, che potrebbero contribuire a modificare la percezione pubblica delle periferie, mostrando una realtà più complessa e sfaccettata.
Fonti archivistiche
Archivio RAI, Torino, La casa in Italia – Piani di edilizia pubblica in Italia, del 30/05/1964
La casa in Italia (1964) di Liliana Cavani
Le case degli italiani (1956) di Vittorio Sala, Istituto Luce
Piano Marshall, USIS, Le case degli italiani (1956)
TGR Piemonte edizione serale – Luci e ombre di periferia, 22/06/2017
Cento per cento, Panorama politico, del 31/03/1969
TGR Piemonte edizione pomeridiana, 21/03/1996
TGR Piemonte edizione pomeridiana, 19/07/2003
Tribuna politica Giuseppe Parenti presidente INA casa, 1971
Supergiovani (1992)